“Objecthood of a past journey”: il progetto
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"Objecthood of a past journey"
Il progetto è una riflessione sulla migrazione dei primi italiani nel Galles e della formazione dell'identità italo-gallese
La nascita, lo sviluppo, la mostra
Questo articolo è il risultato del percorso fatto per la realizzazione del progetto fotografico “Objecthood of a past journey”. Il lavoro è stato realizzato come progetto finale per il conseguimento del Master of Art in Documentary Photography alla University of South Wales. Lo scritto originale è stato redatto in lingua inglese, questa è la sua traduzione. Nella prima parte dell’articolo è inserita tutta la parte della riflessione sul tema; la seconda parte, invece, passa in rassegna la messa in mostra del progetto.
Premessa
La radice latina del termine “oggetto” è obicere, che letteralmente significa “contrapporre” o “lanciare contro” in senso di obiezione o disapprovazione (Candlin 2009, p 2). Dallo stesso termine deriva “oggettivo”, in contrapposizione al soggettivo, inteso come “non influenzato da sentimenti o pregiudizi personali”. Tradizionalmente, gli oggetti sono stati considerati come “inerzia passiva sulla base della quale misuriamo la nostra attività” (Grosz 2007, p.124). C’è sempre stata una certa reticenza nell’usare gli “oggetti” come materia di studio poiché tacciati di materialismo, feticismo e hobbyismo. Tuttavia, la “vita” emotiva alla base delle esistenze degli oggetti è diventata elemento di studio in un’ampia gamma di discipline riunite sotto il nome di “Material Studies“. La superficie degli oggetti assorbe silenziosamente le esistenze umane, i nostri oggetti o effetti personali sono vulnerabili alle nostre azioni e la relazione tra uomo ed oggetto emerge dalle pieghe, cicatrici o dal modo in cui vengono conservati. Lo stesso oggetto può avere una funzione simbolica – il caso degli oggetti animisti che incarnano o rappresentare divinità, spiriti o demoni – oppure assumere una funzione sociale, affermando uno stato sociale, definendo un costume o creando un legame con la famiglia, gli amici e la comunità (Candlin 2009, p 2).
Usando i “Material Studies” come sfondo teorico, questo saggio procede con l’analisi del progetto fotografico “Objecthood of a past journey”. Il progetto utilizza gli oggetti personali facenti parti di una dote per la sposa appartenete ad un immigrato italiano in Galles, per scavare nei suoi ricordi e riflettere sull’identità culturale italo-gallese.
Dopo aver introdotto le ricerche che hanno ispirato la realizzazione dell’opera, il saggio procede nel campo teorico. Questa parte esplora le relazioni tra storia e memoria, e introduce il concetto di “memoria collettiva” essenziale per comprendere il ponte che esiste tra la memoria sociale e individuale, in che modo la memoria personale può ispirare l’immaginario della comunità. Il terzo paragrafo utilizza il quadro teorico come supporto per procedere all’analisi del significato simbolico e della realizzazione pratica del progetto. Seguendo un approccio archeologico, questa parte dello scritto collega gli oggetti con il loro contesto sociale e culturale, e riflette sulla composizione dell’opera come processo di riscrittura della narrazione della collezione di oggetti fotografata.
Introduzione
Sento la ruggine sfaldarsi sotto la pressione della cerniera. La chiusura è rigida ma non abbastanza per essere bloccato del tutto. Una volta aperte le due cerniere laterali, scoperchio il baule che rivela la sua essenza e posso sentire il profumo di pulito: è la fragranza del sapone usato per lavare le lenzuola contenute al suo interno. Il profumo mi trasporta nelle vecchie stradine del centri storici italiani durante la primavera quando la biancheria è lasciata asciugare al sole stesa sui balconi e le donne lavano la strada davanti all’ingresso delle loro abitazioni.
Quando ho visto per la prima volta il baule non ero sicuro di cosa stessi cercando. Avevo trascorso diversi mesi a fare ricerche sull’immigrazione italiana nel Galles del sud. Conoscevo perfettamente la storia, gli avvenimenti e ed ogni evento. Avevo parlato con la prima e la seconda generazione di immigrati, recuperato vecchie fotografie e molto materiale d’archivio. Ma avevo la sensazione che la ricerca, per quanto interessante a livello storico, non riuscisse a cogliere il cuore della mia narrazione: il mio interesse principale era riuscire a descrivere le complessità della nuova identità migratoria formatosi a seguito del trasferimento. Che cosa restava della cultura natia? Cosa veniva assorbito del nuovo contesto culturale? Come si collocavano le nuove identità rispetto al contesto? E’ stato durante una delle nostre chiacchierate che Angelo mi ha menzionato per la prima volta della dote di sua figlia.
Angelo è Italiano emigrato da Bardi nel Galles del Sud negli anni ’50 all’età di diciotto anni. Al suo arrivo in Gran Bretagna, ha lavorato per quattro anni in una fattoria nella valle della Rhonda, successivamente si è trasferito a Londra per lavorare in un ristorante italiano e qui, durante una “serata tra italiani”, ha incontrato la sua futura moglie Lina. Dopo il loro matrimonio è nata Monica, la loro unica figlia. L’intera famiglia si è trasferita nuovamente da Londra a Newport, in Galles per realizzare il sogno di aprire un negozio di fish and chips. Una volta stabiliti a Newport ci sono rimasti fino ad oggi. Il sogno di tornare in Italia non si è mai realizzato, Lina è venuta a mancare ed Angelo ha deciso di restare vicino a sua figlia.
Ho incontrato Angelo a seguito delle mie ricerche per il progetto e siamo sin da subito entrati in sintonia.
Eravamo seduti sul suo divano, bevendo caffè e sfogliavamo le sue fotografie. Angelo stava ricordando la sua giovinezza in Italia e i luoghi in cui aveva vissuto. C’era un mix di felicità e nostalgia nell’atmosfera, era uno di quei momenti in cui le immagini si confondono con la realtà e il passato torna presente. Non so ancora come ci siamo arrivati alla questione dote, forse una associazione freudiana, ma durante il flusso di coscienza Angelo iniziò improvvisamente a parlarmi del suo baule e dei ricami di sua moglie, la sua dedizione.
La storia del baule è stata sin dall’inizio una illuminazione per me: per la prima volta durante la mia ricerca ero in presenza di un oggetto capace di condensare passato, presente e futuro della storia migratoria degli italiani in Galles ed era capace, nella sua specificità, di astrarsi a simbolo generale. Il baule, i suoi oggetti non erano fatti o eventi ma il loro racconto reso oggetto: si trattava di un mix di emozioni stratificate, complesso, ambiguo e contraddittorio; il tipo di racconto che segna la differenza tra storia e memoria.
Quel che il baule è oggi, non corrisponde a ciò che originariamente intendeva essere. Per anni Lina ha acquistato, conservato e ricamato gli oggetti per la dote della figlia. Tuttavia, quando Monica ha deciso di sposarsi, non ha voluto gli oggetti della dote, ha preferito piuttosto acquistare nuovi oggetti domestici per adornare la sua casa. E’ successo, di conseguenza, che il baule espropriato della sua funzione di dote, è diventato il luogo in cui Angelo e Lina hanno iniziato a riporre “oggetti significativi”.
Storia e Memoria
Storia e memoria sono due modi per accedere al passato. La storia, secondo Halbwachs, “rappresenta il passato solo in modo condensato e schematico, mentre il ricordo della nostra stessa vita presenterebbe un ritratto più ricco con maggiore continuità” (Halbwachs 1992, p.52). In questo senso, la storia è una nozione oggettivamente concepita, una definizione arbitraria, una somma di fatti, date ed eventi che non appartengono alle persone ma sono esterne a esse. La storia è una raccolta di “eventi passati letti nei libri e insegnati e appresi nelle scuole” (p.78) mentre la memoria è “considerata una facoltà propriamente individuale che è […] isolata da chiunque altro e capace di evocare grazie alla volontà o per caso situazioni precedentemente vissute” (p.54). La memoria è un quadro che emerge dalle esperienze personali, da ciò che una persona ha visto, fatto e sentito. Ma Nora spingendo ulteriormente il concetto, porta l’attenzione sulla natura dinamica della memoria:
“la memoria è vita, nata da società viventi fondate nel suo nome. Rimane in evoluzione permanente, aperta alla dialettica o al ricordo e all’oblio, inconsapevole delle sue successive deformazioni, vulnerabile all’impianto e all’appropriazione, suscettibile di essere dormiente a lungo e periodicamente rianimata” (Nora 1996, p.8).
In altre parole, la memoria è un processo attivo in cui i partecipanti sono coinvolti selettivamente con gli oggetti e le esperienze del passato. Di conseguenza, abbiamo che la storia e la memoria vivono in due livelli diversi: uno in universale, invariabile e artificiale, l’altro è personale, mutevole e spontaneo; se la storia giudica, la memoria pone domande. Apparentemente, sono istanze separate destinate a non incrociarsi mai, ma una domanda non smetteva di assillarmi: perché gli oggetti nel baule – tanto intimi per Angelo quanto estranei a me – mi affascinavano? In che modo gli oggetti personali potevano smuovere i miei sentimenti? Perché osservavo quegli oggetti e non potevo fare a meno di collegarli alla storia dell’immigrazione italiana?
Tra storia e memoria si fa spazio la “memoria collettiva”. Quest’ultima combina le memorie individuali per creare un ambiente collettivo in cui le persone di una comunità iscrivono le proprie esperienze, le confermano, trovano un posto all’interno di un racconto comune e persino coprono le lacune nei suoi ricordi. “Si evolve secondo leggi proprie e ogni ricordo individuale che può penetrare viene trasformato all’interno di una totalità senza coscienza personale” (Halbwachs, p.51). Dalla memoria collettiva emerge una sfera particolare del simbolico: immaginario sociale. Thompson descrive l’immaginario sociale come
la dimensione creativa e simbolica del mondo sociale, la dimensione attraverso la quale gli esseri umani creano i loro modi di vivere insieme e i loro modi di rappresentare la loro vita collettiva (Thompson 1984, p. 6).
Il magma dei significati utilizzati dalla società emerge dalla combinazione di riti, costumi, usi, manufatti, regole sociali interne alla comunità. Seguendo questa logica, si può leggere la pratica sociale della dote come parte dell’immaginario comunitario italiano che diventato parte della memoria collettiva.
La dote di Monica è un punto di contatto tra memoria personale e immaginario collettivo, un liau of memoire, “semplice e ambiguo, naturale e artificiale, allo stesso tempo piacevole esperienza tangibile e suscettibile all’elaborazione più astratta”. Un luogo nei tre significati della parola: materiale, simbolico e funzionale. Attraverso gli elementi della dote la società e la comunità si riproducono, riproducono le loro credenze, tradizioni e organizzazione, mentre la famiglia trova nel dono per la figlia un luogo dove continuare la propria esistenza e creare reciprocità con la nuova famiglia:
si comprende chiaramente e logicamente, nel quadro di questo sistema di idee, che è necessario rendere altrui ciò che è in realtà una particella della sua natura e della sua sostanza; accettare, infatti, qualcosa da qualcuno equivale ad accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima; (Mauss 1954, p.16)
Tuttavia, il rifiuto di Monica sovverte questo scenario: gli oggetti, raccolti per far parte della vita di Monica hanno perso la loro funzionalità e, perdendola, entrano nella sfera del puro significare.
L’antico è sempre, nello strano senso del termine, un “ritratto di famiglia”: l’immemore, concretizzato nell’oggetto, di un precedente essere – una procedura equivalente, nel registro dell’immaginario, a una soppressione del tempo (Baudrillard, p.43)
Il presente collassa in un tempo mitologico e l’oggetto diventa un discorso sull’origine: l’oggetto definisce ciò che è stato, diventa “un percorso che conduce dal presente molto indietro nel tempo” (ib, p.43). Questo è il punto-cardine che lega il discorso sugli oggetti custoditi nel baule con la storia dell’immigrazione italiana in Galles e pone in questione il discorso sull’identità culturale. In effetti, l’essenza del progetto non sta negli oggetti della dote in sé, ma li fotografa in quanto risultato del passaggio attraverso due generazioni e due culture.
Sviluppo
Interrogo il baule e la sua superficie. Una mistero avvolge la sua storia. Le sue cicatrici mi suggeriscono i viaggi che ha fatto da Londra a Newport, i dossi e le porte che ha attraversato. L’unico riferimento che contestualizza il suo passato è una piccola placchetta con scritta “London” nella parte anteriore. “Londra” collega il baule alla mia ricerca: la città-porta obbligatoria per tutti gli immigrati italiani hanno attraversato il mare per raggiungere il Regno Unito.
Aprendo il baule inizio istintivamente ad osservare, toccare, profumare il suoi oggetti, mi incuriosiscono e rovisto lo suo interno per orientarmi e trovare il mio ordine tra di loro. Improvvisamente mi rendo conto della natura performativa del progetto: la sua essenza emerge nel processo di rovistare, spostare i guanciali, i fazzoletti, aprire le scatole al suo interno, seguire con il dito i ricami fatti a mano, leggere i messaggio volontari ed involontari al suo interno, una performance questa che inevitabilmente riversa i suoi effetti nella fase di produzione delle immagini: una volta che tutti gli strati del baule sono stati spostati, non è più possibile ricostruire la narrazione come originariamente concepita. Divento anche io parte della storia, impegnata in un dialogo con l’insieme di materiali, considerando e riconsiderando le loro relazioni, selezionandoli divento il bricoleur della storia, colui che
interroga tutti gli oggetti eterogenei di cui [il] tesoro è composto per scoprire cosa ciascuno di essi potrebbe “significare” e quindi contribuire alla definizione di un insieme che deve ancora materializzarsi ma che alla fine differirà da quello strumentale solo nell’interno disposizione delle sue parti (Levi-Strauss, p. 12).
Riscrivo la storia costruendo un nuovo ordine tra gli elementi.
Nell’avvicinarmi al mio compito ho deciso di rispettare il più possibile il rapporto tra gli oggetti del baule. Evito, per quanto possibile, di utilizzare nelle mie fotografie qualsiasi elemento esterno. Preferisco lavorare esclusivamente con gli elementi interni, sovrapponendoli e combinandoli tra di loro in maniera creativa. Il bianco ingiallito delle confezioni, i segni delle rughe impressi sui panni e le etichette mai rimosse sono segni del tempo trascorso, delle feste, dei picnic, delle serate, delle cene di famiglia per le quali sono stati pensati e mai usati. Questi segni riprodotti nelle fotografie raccontano la nostalgia di una promessa mancata.
La scelta di non introdurre elementi esterni riproduce anche la circolarità temporale tipica della collezione, una dimensione sistematica che abolisce lo spazio temporale e il senso del tempo presente. Come spiega Baudrillard “riducendo il tempo a un insieme fisso di termini navigabili in entrambe le direzioni, la collezione rappresenta la continua ripresa di un ciclo controllato” (Baudrillard, p. 54). Il ritmo di questa ripetitività è anche dettato dall’uso della prospettiva tassonomica delle fotografie. La tassonomia che pone tutto su un piano liscio, offre un punto di vista costante ed è coerente e ripetitiva in modo che nessuno degli oggetti domini la composizione. Allo stesso modo questa prospettiva è in grado di riprodurre il mio punto di vista quando, aprendo il baule, osservavo gli elementi della collezione ricreando, così, il processo performativo in cui sono stata coinvolta e di rendendo anche lo spettatore partecipe della perfomence.
Installazione
Il progetto è composto da una serie di sedici fotografie esposte su due pareti diverse. Le fotografie sono immagini in still life degli oggetti presenti nel baule quali pettini, panni, opuscoli, giocattoli e statue religiose. Alcuni di questi sono ancora imballati, mentre altri sono stati chiaramente utilizzati o danneggiati nel tempo. Una serie di altre cinque fotografie accompagnano la sequenza, sono le istantanee che Angelo ha scattato con la sua Polaroid in diverse situazioni della sua vita. Parte dell’installazione è anche il baule fisicamente presente sulla scena.
Sulla parete principale c’è una combinazione di dodici fotografie. Il numero delle immagini non è casuale, ma si riferisce al simbolismo della dote che tradizionalmente includeva dodici elementi per ogni serie di coperte.
La scelta delle cornici si sposa coerentemente con l’importanza che l’aspetto materiale assume in questo progetto e cerca di rendere la materialità il più visibile possibile.
Il MDF (pannello in fibra) è stato scelto per esporre le immagini dal baule. Fotografare un oggetto è un’operazione che converte un oggetto in un nuovo tipo di supporto: la fotografia. Questa metamorfosi ha un impatto importante sulla percezione dell’oggetto: a causa della natura semiotica della fotografia, lo spettatore è stimolato a riflettere su segni e forme dell’oggetto rappresentato. In questo senso la fotografia si adatta perfettamente a spingere verso la contemplazione degli oggetti come presenze significative. Tuttavia, l’importanza dell’aspetto materiale con la fotografia svanisce. In questo senso, MDF crea una base per l’immagine che le restituisce le sue dimensioni 3D e presenta il vantaggio di non creare distanza tra l’immagine e lo spettatore: l’oggetto appare fluttuante sul muro mentre l’immagine procede verso il pubblico.
Le istantanee di Angelo, invece, sono incorniciate in modo diverso, la scelta della cornice, in questo caso, è andata sui frame fluttuanti. Come accennato prima, l’aspetto visivo della fotografia assorbe la loro materialità in modo che il supporto diventi trasparente. Tuttavia, la parte fisica di una fotografia influenza la sua percezione, appartiene a “quella classe di oggetti laminati le cui due foglie non possono essere separate senza distruggerle entrambe” (Barthes 1981, p. 6). La fotografia appartiene alla categoria di oggetti significativi che stimola la memoria attraverso le immagini e la loro presenza fisica. Mettendo l’immagine tra due vetri, la cornice fluttuante pone l’accento sull’aspetto “oggettuale” dell’immagine, il suo spessore e la sua consistenza restituiscono significato a un supporto altrimenti considerato neutro.
Il riflessione conclusiva è sulla presenza del baule. Questo è stato inserito fisicamente nella composizione come elemento di autenticità per le immagini: gli oggetti sono stati convertiti in segni puri ma il loro referente reale può essere trovato all’interno del baule.
Di seguito la disposizione e il significati delle immagini.

Il progetto in mostra
Dettagli sulle immagini
La sequenza inizia con una fotografia (Fig.03) di stoffa ricamata che introduce alla natura narrativa del progetto. In effetti, la forma del ricamo ricorda i punti sospesi dei racconti che, nel contesto del progetto, hanno la funzione di suggerire il passato da cui proviene la collezione. E’ l’idea di Lina che nel ricamare questi punti, collega la sua idea del mondo, la sua cultura e tradizione, come un atto di fede nel futuro, alla storia di sua figlia. La superficie del tessuto presenta anche un segno a matita, una parola incompiuta il cui senso non è chiaro. Il segno ci porta a chiederci cosa sia successo nel momento in cui è stata scritta la parola mancante, perché Lina non ha completato il lavoro, cosa è successo dopo la parola? In questo senso, l'immagine diventa una potente metafora della storia del baule, tanto che, per la composizione del progetto, la traiettoria della linea di punti diventa la linea lungo la quale sono disposte tutte le altre fotografie.
Le fotografie successive rappresentano una selezione degli oggetti più significativi. Come accennato in precedenza, non tutti gli oggetti della collezione fanno parte dell’idea originale del baule. Quando la dote fu rifiutata, e quindi perse la sua funzione sociale, Lina e Angelo hanno usato il baule come luogo per conservare “oggetti evocativi”, cioè come raccoglitore di tutti gli elementi in relazione con il loro vissuto, elementi capaci di creare un ponte tra mondo mentale e fisico.
Pur non conoscendo la motivazione per preservare alcuni degli oggetti, la loro importanza viene espressa dalla cura con cui Lina li ha conservati: alcuni sono avvolti in pellicole trasparenti o protetti da carte, altri sono conservati all’interno della loro confezione originale e altri sono custoditi in scatole. La patina delicata che avvolge l’asciugamano degli uccelli, la busta del centrino con il nastro adesivo ingiallito e la spugna morbida dietro la bambola sono atti di gentilezza che non solo preservano ma proteggono anche da eventuali danni come se fossero oggetti di valore.







Una dimensione temporale differente, invece, è evocata dalle cuciture fatte a mano per personalizzare fodere e lenzuola. Come nel caso dell'immagine di apertura la sequenza (Fig.01), anche nel lavoro di ricamo delle federa riportata nella Fig. 04 si intuisce il tempo investito e quindi l’importanza che Lina ha dato a questo guanciale personalizzato interamente a mano.
Ricamare gli elementi della dote per renderli unici è una antichissima tradizione. Storicamente, la famiglia della giovane donna raccoglieva biancheria, argento e altri articoli molti anni prima del matrimonio, all’approssimarsi dell’età da marito della fanciulla. In questo modo la ragazza trascorreva tutta la sua fase di crescita fino al giorno delle nozze ricamando con l’aiuto e l’insegnamento della madre la sua futura biancheria nuziale. Un rituale sociale oltre ad un vero e proprio percorso formativo che preparava la bambina alla vita matrimoniale e alle competenze necessarie. In questo caso, inoltre, è poi interessante la scelta della lingua italiana “buon giorno” preferita all’uso dell’inglese per il ricamo.
Considerazioni simili sul “fattore tempo” possono essere fatte anche per la bambola e una tovaglia ancora custodite nelle loro confezioni originali che, intuiamo dall’etichetta, sono state entrambe acquistate in Italia. Dalle testimonianze di Angelo sappiamo che questi oggetti sono stati raccolti da “mamma Lina” durante i vari viaggi e vacanze nella loro città natale, Bardi. È veritiero quindi pensare che questi oggetti siano stati acquistati dopo una accurata ricerca svolta dalla mamma Lina durante i suoi viaggi in Italia.
La candela, l'abito da bambina e il fazzoletto ricamato possono idealmente inserirle degli “oggetti biografici”, oggetti simbolici utilizzati in rituali o celebrazioni che hanno accompagnato la vita di Monica. La candela e il vestito furono usati durante il battesimo di Monica, della loro funzione troviamo traccia in due istantanee di Angelo che ritraggono l’intera famiglia durante la celebrazione battesimale. La relazione tra questi oggetti e le fotografie è visivamente evidenziata dall'uso dello sfondo: abito e candela si trovano su un'impostazione nera che li collega graficamente con le fotografie in bianco e nero e porta gli oggetti in uno spazio fluttuante non correlato con gli altri elementi del baule per suggerire la relazione con l'evento. Il fazzoletto, invece, è un oggetto molto enigmatico. È ricamato con la lettera M, l’iniziale di Monica, ed è probabilmente l'oggetto più intimo della collezione. Tuttavia è un oggetto sospeso che potrebbe appartenere sia al battesimo o verosimilmente alla cerimonia nuziale. Questa ambiguità è stata usata come strategia narrativa: metaforicamente parlando diventa l'origine e la fine della storia, il battesimo e il matrimonio, il tempo in cui è iniziata la raccolta per la dote e contemporaneamente quando l'esistenza della dote è giunta a conclusione.



Un’ultima riflessione deve essere fatta sulla fotografia conclusiva del progetto. Si tratta di una delle cinque istantanee di Angelo scattate in Italia e riprese nel progetto. All’interno del contesto della serie fotografica questa immagine funziona come il memento mori della storia: il gesto introduce ambiguità all’interno del discorso, il braccio teso vero il monumento-simbolo è di sostegno o di rifiuto? Accoglie o rigetta?
Conoscendo la storia sappiamo che la dote e tutto quello che implica simbolicamente sono state rifiutate ma è proprio in questa fotografia che viene esplicitato visivamente: seguendo il movimento del braccio di Monica l’occhio dello spettatore, che ha passeggiato fino a quel momento tra gli oggetti della dote, viene spinto a ritornare all’interno della collezione riproducendo così anche la dimensione circolare del tempo della collezione. Suggerisce Baudrillard – la collezione è un modo rudimentale di dominare il mondo esterno, di organizzare, classificare e manipolare (2009, p. 49). Gli oggetti possono essere visti come attori sociali, influenzano il modo di essere nel mondo, nella società in un modo che non si sarebbe verificato se non esistessero in una forma specifica. Rifiutare una dote, quindi, contesta l’organizzazione del mondo che gli oggetti rappresentano e che intendevano veicolare.






Pubblicato da
AMDM
